Il Teatro in Italia

przez bedy

Nato nell’antica Grecia, dal dramma satiresco, il Teatro, o meglio la forma d’arte della letteratura teatrale, ha compiuto un lunghissimo viaggio irto di trasformazioni per giungere fino a noi, con lo stesso impatto e la stessa veemenza che aveva nell’Attica.
Se, con il passare dei secoli, le tragedie e le commedie si sono adattate ai periodi storici ed ai gusti cangianti degli utenti, esse non hanno però perso il fascino ed il potere di stregare l’uomo. Certamente l’avvento di nuovi mezzi espressivi, quali il Cinema, prima, e la Televisione poi, ha allontanato le grandi masse dai teatri, ma la schiera degli appassionati è certamente folta.

In questo percorso presentiamo una breve storia della drammaturgia italiana, dal Medioevo al Novecento. Ci rendiamo certamente conto che essere esaurienti sarebbe difficile, ma ci auguriamo che queste pagine aiutino il lettore a districarsi meglio nell’ampio panorama della Letteratura Italiana, individuando gli Autori che maggiormente hanno contribuito a formare e dare dignità alla nostra lingua ed al linguaggio espressivo di questa forma d’Arte.

ll Medioevo

Sul principio del Trecento il commediografo A. Mussato tentň per primo un’imitazione in latino delle tragedie di Seneca con l’Ecerinis; dopo questo esperimento il teatro di Seneca godette larga fortuna fino al Quattrocento, senza peraltro determinare una vera e propria rinascita della tragedia antica. Soltanto al principio del XVI sec., Trissino con la Sofonisba diede alla letteratura italiana il primo modello di tragedia regolare, uniformandosi ai grandi modelli greci. Anche se la Sofonisba non venne messa in scena prima del 1562. Meno rigida nella struttura e con alcuni originali momenti di poesia fu l’Orazia di Pietro Aretino, pubblicata nel 1546, ma neppure questa, a quanto risulta, fu mai rappresentata. La conoscenza della Poetica d’Aristotele orientň le discussioni sulla tragedia in modo sempre piů rigoroso, e perciň la Canace di S. Speroni (1542) fu oggetto di discussioni, e il maggiore tragediografo italiano della metŕ del secolo, G. Giraldi Cintio, dopo la prova dell’Orbecche (1541), volle scrivere un Discorso sulle commedie e sulle tragedie, pubblicato nel 1554, per accettare le norme aristoteliche e per difendere un tipo di spettacolo piů vicino alla tragedia di Seneca che a quella greca.

Nello scritto del Giraldi è varie volte ribadito il principio aristotelico della catarsi. Era questa la finalità morale che sostenevano negli stessi anni alcuni commentatori della Poetica, e in particolare V. Maggi; ma il Giraldi, nonostante l’adesione ad Aristotele, mirava a un tipo di spettacolo moderno, che se molto deve a Seneca nella spiccata predilezione per scene cariche d’orrore, nel rispettare la divisione in atti e nel fare del coro una specie di commento „alle cose della favola”, si caratterizza per la preferenza accordata a vicende romanzesche e per la soluzione a lieto fine. Mentre ebbero scarso seguito alcuni esperimenti quali Il soldato di Angelo Leonico (1550), o Il libero arbitrio (1546) del bassanese F. Negri, primo esempio di tragedia in prosa, sull’esempio del Giraldi trionfò per tutta la seconda metà del XVI sec. la tragedia degli orrori di argomento esotico e romanzesco.
Spicca fra i molti tragediografi della fine del secolo Pomponio Torelli per il senso drammatico col quale interpretò il tema della ragion di Stato, come nel secolo successivo tengono una posizione di rilievo Federico Della Valle e Carlo de’ Dottori, autore dell’Aristodemo. Non meno importanti delle opere furono le discussioni dei critici, che, se da un lato ebbe credito la spiegazione in senso moralistico del principio aristotelico della catarsi, dall’altro affermarono una diversa teoria, esposta con particolare rigore da L. Castelvetro nel suo commento della Poetica. A base di questa teoria stavano una concezione edonistica della poesia e un rigoroso realismo che portava sia a limitare l’abuso del meraviglioso sia a sancire, oltre al principio dell’unità d’azione, quelli dell’unità di luogo e di tempo allo scopo di dare piena verosimiglianza ai fatti rappresentati.

ll Rinascimento

Con il grande impulso che la cultura italiana ebbe nelle corti della fine del Quattrocento, a Ferrara, Mantova, Milano, Firenze, vennero rappresentate commedie di Plauto e Terenzio; ma solo al principio del secolo seguente, nel generale sforzo di dare alla letteratura volgare la dignità e la ricchezza delle letterature antiche, si ebbero le prime commedie regolari italiane, composte a imitazione dei comici latini.
Iniziatore del nuovo teatro fu Ludovico Ariosto, che fece rappresentare le sue due prime commedie, La Cassaria ed I Suppositi, rispettivamente nel 1508 e nel 1509 a Ferrara. Nel 1513 venne poi rappresentata a Urbino La Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, commedia di spiriti più boccacceschi che plautini o terenziani.

Sia le commedie dell’Ariosto sia quella del Bibbiena furono composte in prosa, ma l’Ariosto volle più tardi versificare le sue opere per meglio uniformarle al teatro antico. Già qui è un indizio del diverso spirito col quale l’imitazione degli antichi venne intesa dai nostri commediografi: se da un lato infatti fu sentita l’esigenza di uniformarsi ai Latini nello svolgimento drammatico, ed ebbe perciò fortuna la commedia d’intreccio intricato risolto dalle improvvise soluzioni, dall’altro si volle salvare l’originalità della commedia moderna, intesa quale rappresentazione della vita contemporanea. Così, mentre i classicisti di stretta osservanza presero direttamente spunto dalle opere plautine e terenziane e usarono a lungo il verso, gli autori più geniali e spregiudicati preferirono ispirarsi alla realtà del loro tempo e scrivere in prosa.
Pertanto i capolavori del teatro comico cinquecentesco furono scritti in prosa: la Mandragola del Machiavelli, le cinque commedie di Pietro Aretino, Gli Straccioni di Annibal Caro, Il Candelaio di Giordano Bruno e, sulla fine del secolo, le quattordici commedie composte da Giovanni Battista Della Porta.
Una lunga crisi della commedia regolare fu determinata dal trionfo della commedia dell’arte che, iniziata verso la metà del XVI sec., dominò sino al XVIII, quando, nel restaurato classicismo dell’Arcadia, non pochi letterati provarono a comporre commedie scritte e regolari, come: Girolamo Gigli, Giambattista Fagiuoli, Jacopo Angelo Nelli, Scipione Maffei.

Il Settecento

Il grande rinnovatore della commedia fu però a metà del Settecento Carlo Goldoni, che, sebbene disposto non di rado ad assecondare i gusti del pubblico, attuò una riforma fondata più che su espedienti tecnici su una geniale capacità di creare una sintesi nuova tra finzione teatrale e realtà.

Autore fecondissimo, il Goldoni compose commedie in italiano e in dialetto veneziano. Usando il dialetto egli accettava una tradizione che era stata viva nel Cinquecento e nel Seicento in varie regioni italiane, ma soprattutto stava affermando il suo realismo. Pur avendo dei seguaci, il Goldoni non ebbe dei continuatori degni. Nell’età romantica vanno comunque menzionati due commediografi minori di qualche rilievo: il romano Giovanni Giraud e il veneziano Francesco Augusto Bon. Del resto l’istanza realistica avanzata dal nostro Romanticismo e affermata più recisamente nel secondo Ottocento doveva portare alla dissoluzione della commedia nel dramma d’ambiente borghese e popolare. La vera e propria commedia sopravvisse quasi esclusivamente per opera di scrittori dialettali, quali il siciliano Nino Martoglio e, di lui assai più notevole per finezza psicologica, il veneziano Giacinto Gallina, fedele alla lezione del Goldoni e ripetitore non pedestre dei temi della letteratura realistica della fine del secolo. Ai nostri giorni l’autore che ha saputo restare più fedele agli spiriti del teatro comico è stato Eduardo De Filippo con le commedie dialettali d’ambiente napoletano.

La revisione critica alla quale l’Illuminismo sottopose anche le convenzioni letterarie, la riscoperta fuori dall’Inghilterra dell’opera di Shakespeare, il gusto realistico che portava a prediligere il dramma in prosa di ambiente borghese determinarono la crisi della tragedia classica. I più efficaci promotori di questa crisi furono in Francia Diderot e in Germania Lessing, i quali con i loro drammi e con i loro fondamentali scritti critici più lucidamente di altri si fecero portavoce di un gusto nuovo. Dopo di loro, in età romantica, la critica della tragedia classicheggiante e delle tre unità pseudo-aristoteliche fu approfondita in Germania da A. W. Schlegel e in Italia da A. Manzoni.

L”Ottocento ed il Novecento

Tutto questo non comportò la morte della tragedia, bensì la nascita di una nuova forma di teatro tragico. In Germania con Klopstock, con Goethe del Götz von Berlichingen, con Schiller, in Inghilterra con Byron, in Italia con Silvio Pellico ma soprattutto con Manzoni la tragedia, abbracciando vasti drammi individuali e collettivi, propose un tipo nuovo di spettacolo, aperto ai grandi ideali politici, morali e religiosi del Romanticismo, e se non mancarono scrittori di primo piano che vollero restare fedeli alle forme della tragedia classica (Goethe con l’Ifigenia in Tauride, Foscolo, Shelley) bisogna riconoscere che l’ultima stagione del vero e proprio teatro tragico è rappresentata dai poeti romantici.

Dopo di loro quello che trionfa è il dramma nelle varie forme che esso assunse dall’epoca del realismo ottocentesco fino ai nostri giorni. l tentativi di far rivivere la tragedia in versi, in antitesi al gusto naturalistico e borghese dominante sulla fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, da parte di poeti quali D’Annunzio e Hofmannsthal, costituiscono un episodio che, pur avendo un significato nella storia della poesia, non ha inciso profondamente sull’evoluzione del teatro moderno.

Della tragedia come struttura formale nel Novecento è rimasto poco, mentre si è sviluppato soprattutto il concetto di tragico. Il sentimento tragico della vita è un elemento che è passato dall’antichità ai tempi moderni attraverso opere artistiche, filosofiche, letterarie e che oggi si esprime in forme diverse come il romanzo, da Dostoievski a Kafka a Pavese, e in campo teatrale in rappresentazioni in cui la parola è ridotta all’essenziale, come in Beckett, o annullata per lasciare campo alle performances corporali del Living Theatre.

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